La letteratura, a causa della sua riprovevole autoreferenzialità, mentre pensa di poter parlare del mondo, non fa altro che parlare di se stessa. Il metodo per poter dire qualcosa di nuovo e utile sul mondo è stato scoperto, si chiama ipotetico-empirico. L'autoreferenzialità della letteratura è fatto ben noto, ma ciò non toglie che per lo più regni incostratata l'inconsapevolezza delle demoralizzanti conseguenze euristiche di ciò. Se gli autori e i lettori sapessero che si stanno occupando in gran parte di intrattentimento non ci sarebbe nulla di male nella letteratura: c'è chi gioca alla playstation, chi va al cinema, chi legge romanzi e poemi, chi fa tutte queste, e altre, cose. E' il pensare di avere una patente per interpretare ciò che è, che rende la situazione disdicevole. La conseguenza più notevole è forse l'eccesso di tempo dedicato nelle scuole alle belle lettere. Esse, a mio avviso, sono mere interpretazioni personali (operate da persone ben dotate nell'area di Broca) della sovrastruttura della sovrastruttura.
Concretamente: mi chiedo, ad esempio, se ci sia un valore formativo nella trasmissione del seguente pensiero del sommo poeta italiano: gli Ebrei uccisero Dio e fecero molto male; i Romani uccisero la natura umana di Gesù e fecero molto bene, perché, solo essendo morto, Gesù poteva risorgere. Ma dai... C'è bisogno di leggere a 16 anni migliaia di versi scritti in un linguaggio quasi incomprensibile per capire che nel Medio Evo c'erano credenze bizzarre?
Un'obiezione sensata a questo pensiero potrebbe essere avanzata sostenendo che il valore formativo degli auctores è relativo anche alla possibilità di acquisire un linguaggio ricco da parte dei lettori; linguaggio che, in qualche caso, può mostrare una, seppure sicuramente molto limitata, utilità.
O no?
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